Parigi, Opéra Bastille, “Die tote Stadt” di Erich Wolfgang Korngold
ONIRICA OSSESSIONE
“Die tote Stadt” (1920) è l’opera più nota di Erich Wolfgang Korngold, genio precoce formatosi nel clima culturale mitteleuropeo della Secessione viennese, esiliato poi per ragioni razziali negli Stati Uniti, dove ebbe una seconda fase creativa e notevole fama per la composizione di musiche per l’industria hollywoodiana.
Dopo un trionfo iniziale l’opera cadde nell’oblio, ma ora si sta, nonostante le innegabili difficoltà esecutive, riaffermando sulla scena internazionale, conquistando il pubblico moderno per la fantasmagoria musicale che oscilla tra slanci e ripiegamenti ed il forte potenziale drammatico e psicanalitico.
L’inquietante vicenda, ispirata a un dramma dello scrittore belga Georges Rodenbach, narra di un vedovo inconsolabile che vive nel culto morboso della defunta consorte fino a quando non incontra una ballerina che le assomiglia su cui trasferisce la propria ossessione confondendo una donna nell’altra, ma l’irriverenza sacrilega della soubrette scatenerà la furia omicida dell’uomo che la strangolerà con la treccia-reliquia della moglie. La quasi totalità dell’opera in realtà è solo un lungo sogno dall’effetto catartico e al risveglio il protagonista se ne andrà da Bruges, la città morta, libero di vivere e amare.
A Parigi è ora in scena il collaudato allestimento dell’Opera di Vienna firmato da Willi Decker, che ha contribuito a risvegliare l’entusiasmo nei confronti di questo capolavoro dimenticato, facendo opera di divulgazione nei principali palcoscenici europei; la produzione è già stata vista a Londra, Salisburgo, Amsterdam e Barcellona, incontrando consensi unanimi ed imponendosi come un ”classico”. Precisiamo che anche la Fenice aveva scelto “ Die tote Stadt” come opera inaugurale della presente stagione nel raffinato allestimento di Pier Luigi Pizzi, che ne coglieva gli aspetti simbolisti e decadenti con uno spettacolo di grande fascino e bellezza,efficace nel suggerire le analogie fra Bruges e Venezia, cornici ideali per storie di amore e morte sull’acqua.
Invece nelle intenzioni di Willi Decker Bruges ha perso lo stato di luogo reale per diventare lo spazio dell’immaginario, un luogo dell’anima dalla forte connotazione onirica dove si rifugia il protagonista per fuggire alla vita reale e mettere in scena il proprio sogno. All’inizio vediamo, in un interno borghese dal pavimento disseminato di fogli accartocciati come foglie morte che ritraggono all’infinito lo stesso volto, il protagonista immobile intento a contemplare il ritratto della moglie senza riuscire a distoglierne lo sguardo. Per marcare l’avvio della fase onirica la scena si duplica e un ambiente identico, ma rimpicciolito, emerge dall’oscurità per incastonarsi sopra la scena principale, con un replicante del vedovo che dialoga con lo spettro della moglie, mentre quello vero sogna (e canta) in poltrona.
Anche lo spazio scardina la regolarità geometrica, deformandosi a vista per adeguarsi a logiche oniriche: il soffitto s’inclina diventando opprimente, il pavimento ruota per galleggiare come una zolla sul palcoscenico e la scatola che sovrasta la scena posteriore contribuisce all’illusione del teatro nel teatro per l’irrompere delle maschere della commedia dell’arte, creature ambigue ed irriverenti, impomatate di bianco come fantasmi, che comunicano un senso di grottesca derisione nei confronti del protagonista, di cui riflettono le pulsioni più profonde.
Luci azzurrine colorano di blu la scena suggerendo le acque morte su cui galleggiano casette nere un po’ sghembe dalle finestre illuminate, un paesaggio che allude alla pittura di Magritte deformata dall’ossessione.
Nel terzo atto la tensione si fa insostenibile e Marietta, dapprima una Jean Harlow fatale, diventa una danzatrice calva in sottoveste, sarcastica e lasciva, che frusta Paul con la parrucca-feticcio della morta in una danza macabra che le si ritorcerà contro. E allora la stanza riacquisterà la geometria originale , il soffitto tornerà al suo posto e Paul uscirà di scena pronto per una nuova vita.
Robert Dean Smith, alle prese con un ruolo “impossibile”, che richiede oltre a una vocalità acuta e tesissima grandi capacità espressive, nonostante il volume limitato che talvolta stenta a passare l’orchestra, convince per un canto sensibile e sfumato capace di mezze voci adatto a suggerire la fragilità di Paul ed il suo essere perturbato.
Ricarda Merbeth è una Marietta forte che non vuole farsi manipolare dalle ossessioni del vedovo e che afferma con un gioco scenico avvincente un’indiscutibile fisicità e aggressività. La voce un po’ metallica difetta di melanconia sognante ed erotismo di accento, ma dimostra ardore e tenuta sostenendo la scomoda tessitura senza cedimenti fino alla fine.
Nel doppio ruolo di Frank e Fritz Stéphane Degout risolve con disinvoltura le due diverse dimensioni vocali, anche se il Valzer di Fritz vorrebbe voce più carezzevole. Doris Lamprecht è una Brigitta autorevole, talmente fedele da farsi crocifiggere per salvare il padrone. Fra i ruoli minori Letitia Singleton è Lucienne, Elisa Cenni è Juliette, Alain Gabriel è Victorin. Rciordiamo anche il Gaston di Serge Luchini e Alexander Kravets nel ruolo del Conte Albert Mathias Schulz.
Pinchas Steinberg dirige con rigore analitico e serrato la partitura, di cui fa scaturire con un’esecuzione in crescendo l’infittirsi di tensione e violenza, sottolineando la forte pressione psicologica che esercita la musica. Una lettura teatrale che privilegia aspetti espressionisti piuttosto che simbolisti ed estetizzanti e che non cerca il facile effetto e pura bellezza timbrica, ma ritmo e ossessione.
Teatro esaurito e pubblico in preda a un autentico, e per certi versi sorprendente, entusiasmo: la “città morta” vive.
Visto a Parigi, Opéra Bastille, il 9 ottobre 2009
Ilaria Bellini
Teatro